Vai al contenuto

Il problema non è (solo) la chiusura

7 aprile 2021Franco Bianco

Purtroppo è vero: molta gente è ormai alla disperazione, comunque si vogliano giudicare le (non sempre spontanee) manifestazioni di ieri, anche degenerate in violenza in qualche caso.
Ma dipende veramente dalle chiusure, o solo da esse? Bisogna aprire gli occhi: la realtà è che il mondo è cambiato e sempre più cambierà, ed il contesto “ante-pandemia” in molti casi non esisterà più. Mai più. Per sempre.
Faccio qualche esempio:

– il lavoro denominato “smart working” non è un fatto congiunturale, non è dovuto alla sola pandemia e non sparirà quando (e se) la pandemia sarà stata superata o risolta in qualche modo (personalmente sono fra coloro che ritengono che, almeno per molti anni, essa diverrà una presenza permanente, una “endemia”, che richiederà vaccinazioni periodiche e perduranti attenzioni nei comportamenti).
Quel modo di lavorare, “a distanza” (tranne che nella scuola, augurabilmente), si consoliderà e si estenderà ancora di più, perché in molti casi conviene ed è condiviso sia da buona parte dei lavoratori che da molte imprese, specialmente quelle più grandi (che in molti casi ci guadagnano).
Questo (che non è del tutto privo di contro-indicazioni, di effetti per qualche ragione negativi) ha sicuramente delle ricadute positive – riduzione del traffico automobilistico, con conseguente miglioramento della qualità dell’aria specialmente nei centri urbani; minor affollamento dei treni regionali perché molte persone, con enorme e comprensibile sollievo, non hanno più bisogno, ogni mattina, di recarsi dalla provincia, in molti casi anche lontana, alla città per andare a lavorare (ore di viaggio all’andata ed al ritorno, in non pochi casi); e così via – ma ha tutta una serie di conseguenze negative e definitive. Il fatto che ci siano molte più persone che restano a lavorare a casa, oltre a quelle che a casa ci restano perché lavoro non ne hanno più, comporta una circolazione molto minore, per cui, ad esempio, la miriade di bar che esiste attualmente (spesso anche troppi, a pochissimi metri uno dall’altro) non potrà più avere clienti a sufficienza per coprire le spese di esercizio e del personale; la grande quantità di persone che andavano al bar – la mattina prima del lavoro a fare colazione, o a fare uno spuntino nel corso della mattinata, o a consumare un pasto rapido ad ora di pranzo – non ci sarà più, o non nella misura precedente: e questo vuol dire il crollo irreversibile di molte attività, e la perdita di grandissime quantità di posti di lavoro sia diretti che indiretti (i lavoratori di vario tipo impegnati in quelle attività: baristi, camerieri, cuochi e personale vario di cucina, ecc.; gli addetti alle pulizie; i rappresentanti di generi alimentari che fornivano prodotti a quegli esercizi; le aziende che ad esse vendevano prodotti, che soffriranno anch’esse di una drastica riduzione della produzione e saranno spesso anch’esse costrette a ridurre il loro personale; e così via).

– non basta aprire i ristoranti per avere un numero di clienti adeguato. Questo vale non solo e non tanto per i ristoranti di livello medio-alto, la cui clientela probabilmente subirà dal nuovo modello sociale danni limitati (i clienti dei ristoranti “stellati” forse non diminuiranno, se non in misura ridotta), ma soprattutto per i ristorantini e le pizzerie di livello più popolare, che vivevano con coloro che ci andavano soprattutto ad ora di pranzo e che ora non saranno più in giro, o con una clientela dalla più modesta capacità di spesa, perché questa è stata falcidiata dalla crisi e dalle perdite di lavoro che hanno fortemente ridotto, e non per breve tempo, il reddito spendibile. Inoltre, le frotte di turisti che riempivano locali e negozi (specialmente nelle tante città d’arte) sono ormai destinate, e per lungo tempo, ad essere solo un ricordo: il turismo in qualche misura riprenderà, ma sicuramente non avrà le dimensioni di massa (anche eccessive: ed è un bene) di prima: e questo comporterà l’inevitabile cambiamento radicale dell’insieme del panorama commerciale (a partire dalle Agenzie di viaggio, che avranno molti meno clienti ed in non pochi casi dovranno chiudere)

– per le stesse ragioni, non basta aprire alberghi e pensioni: sicuramente non basterà a quelli più modesti, che non avranno più le folle di richiedenti a cui si erano abituati.
Forse a Capri o sulla Costa Smeralda o a Cortina o a Sestriere o nei luoghi più eleganti e costosi la flessione sarà solo parziale: ma tutti gli altri, che sono la grande maggioranza, ne soffriranno molto, ed in molti casi non potranno resistere. Questo vuol dire enormi riduzioni di opportunità di lavoro per personale che con quelle attività “si arrangiava” e riusciva a tirare più o meno avanti: studenti (ma anche diplomati e laureati), o semplicemente giovani, che lavoravano solo nei mesi estivi o in quelli invernali e così ottenevano una qualche forma di autonomia economica; personale addetto alle pulizie ed al funzionamento dei vari esercizi, sia all’interno che verso la clientela; e così via.

– non basta aprire cinematografi, teatri, auditorium e luoghi di svago per avere un numero di clienti sufficienti a ripagare le spese ed a pagare attori, cantanti, musicisti e via dicendo: e sicuramente non basterà assolutamente, fino a quando le presenze dovranno essere limitate, fosse anche al 50% o anche più. Possiamo più immaginare, per il futuro più o meno prossimo, gli stadi o i Palazzetti pieni ad ascoltare i concerti di questo o di quello, o i teatri o cinematografi gremiti?

– non basta avere gli aeroporti aperti: il “turismo fieristico” di una volta non ci sarà più (a Milano c’erano permanentemente fiere di qualcosa, che attiravano centinaia di migliaia di persone che avevano bisogno di alloggiare, di mangiare, che andavano in giro e si fermavano ad acquistare una cosa o l’altra: tutto questo sarà inevitabilmente alle spalle, per lungo tempo se non per sempre. E non solo a Milano, ma in moltissimi altri luoghi). E così sarà per il “turismo scientifico“: i Convegni si fanno e si faranno sempre più in teleconferenza, con tutte le enormi conseguenze economiche negative (e qualcuna positiva) che ne derivano. Per fare un esempio immediato: la drastica riduzione del turismo, vacanziero o di qualunque altro tipo, comporterà una flessione importante del lavoro dei taxisti, già da qualche tempo colpiti dall’insorgere di altre e meno tradizionali forme di trasporto pubblico.

Di conseguenza, per non proseguire oltre come pure sarebbe facilmente possibile: in una enorme quantità di casi non si tratta di una crisi passeggera, ma della fine definitiva di un tipo di sistema sociale, di una “trasformazione” che avrà un alto numero di vittime economiche (e non solo) e che costringerà moltissimi a ripensare completamente il proprio modo di essere nel mondo.
E per molti sarà durissima: lo Stato dovrà aiutare tutti coloro che non ce la faranno, che presumibilmente non saranno pochi.

Come si potrà rimediare, dato che per certo, tuttavia, lo Stato non potrà continuare all’infinito a sostenere lavoratori e lavori che non hanno più futuro, che non potranno tornare mai più ad essere quello che erano? Vedo un solo modo: la creazione, da parte dello Stato, di una valanga di attività di innovazione, di ricerca, di costruzione di infrastrutture di ogni tipo, di riorganizzazione e bonifica del territorio a partire dai problemi idro-geologici, e così via: in modo che questo crei una grandissima quantità di nuovi posti di lavoro di ogni natura, da quelli più modesti a quelli più elevati e specialistici passando per quelli di livello intermedio, in modo che questo generi più reddito e compensi quello distrutto, ed il maggior reddito circolante crei di nuovo domanda di consumi di ogni genere (materiali e culturali), e questo faccia nascere nuove e numerose opportunità di lavoro e così, anche se in tempi non brevissimi (ecco la necessità di un volano sociale), si possa ritornare ad un benessere diffuso, anche se, con molta probabilità (ed auspicabilmente, per molti versi), di tipo in larga parte diverso da quello precedente.

Ma bisogna fare presto, prestissimo, e non solo a stanziare fondi ma a realizzare le cose: ne va della coesione sociale e del futuro di intere generazioni.

5 commenti su “Il problema non è (solo) la chiusura”

  1. Non sono molto d’accordo. Prima lavoravo a Milano, ora prevalentemente in provincia. E’ vero, frequento meno i bar e i ristoranti di Milano, ma molto di più quelli di provincia (che, quando eravamo in zona gialla, erano infatti strapieni). Così come le seconde case: i negozi di ferramenta e gli artigiani in provincia avevano la fila fuori. I soldi e il tempo che i pendolari risparmiano con il telelavoro (si può dire anche in italiano) li spenderanno in altre attività nel luogo in cui vivono o in cui desidereranno trasferirsi. Probabilmente aumenteranno gli agriturismi anche in luoghi remoti, che faranno acquisti e faranno lavorare artigiani per attrezzarsi. Probabilmente vaccinazioni e medicine trasformeranno il Covid in un’influenza come le altre: faremo ogni anno due vaccinazioni invece di una. L’epidemia di influenza ha mai bloccato la vita urbana? Sulla socialità ci sarà sicuramente un rimbalzo per una ragione banale ma molto forte: è molto più difficile corteggiarsi a distanza.

    1. Sono d’accordo con Talpone sul fatto che ci sarà un rimbalzo verso la provincia che segnerà un recupero, che però sarà a mio parere solo parziale per vari motivi: a) i problemi dei centri cittadini resteranno tutti interi nella loro drammaticità, perché non è che tutti i lavoratori potranno trasferirsi nelle province; b) molte delle attività dei centri non potranno trovare riscontro nella provincia: si pensi, emblematicamente, ai teatri o agli auditorium; c) la riduzione del turismo di massa nelle “città d’arte” e paraggi specialmente, per un tempo lungo e non prevedibile, comporta problemi di grande entità (si pensi agli alberghi e ristoranti e tavole calde, al loro personale ed a tutto il loro indotto); ed analogamente per la quasi sparizione del “turismo scientifico”, e delle attività fieristiche; d) e quante mense aziendali sono sparite e spariranno? Mia figlia lavora in un luogo che occupa circa 8.000 persone, che sono quasi tutte in telelavoro da oltre un anno: si pensi al danno economico che comporta (oltre ai vantaggi) il fatto che ogni mattina 8.000 persone non escano di casa e non consumino e non pranzino né a mensa né fuori (e consumino per questo anche meno abbigliamento, per esempio); e) e tutto questo, nel suo insieme, caratterizza quella che ho chiamato una ‘trasformazione del modello di vita’, che non sarà indolore e costringerà molti a reinventarsi, chi ci riuscirà, lasciando molte vittime lungo la strada. Sono d’accordo, si può – è anzi opportuno – usare l’italiano quando possibile (i francesi sono maestri ed addirittura eccessivi, in questo): e perciò ho messo “smart working” fra virgolette.

  2. Io sono d’accordo con Franco Bianco, per tanti buoni motivi. Uno è la costruzione delle global city, che diventeranno luoghi di relazione globale, con un centro un po più ampio, dove vivranno solo gli eletti. Ci saranno i locali sfavillanti del centro, dove potrai consumare e ti potrai sedere, mentre le periferie saranno sempre più spente e desertificate. Se vai a vivere in un paese non andrai a pranzare al bar nei giorni lavorativi, ma resterai a casa, con l’isolamento sociale che questo comporta. Non tutti andranno a praticare lo Smart working negli agriturismo, anche li per pochi eletti. Intanto molte famiglie saranno costrette, quindi non per scelta, a lasciare la città e trovare qualche lavoretto sempre più precario e frammentato. Affinché si creino le infrastrutture culturali (cinema, teatro, etc) passeranno anni. Le previsioni saranno precarietà e impoverimento, non tanto prosperità e benessere. Di Smart working si parla e si progetta da un pezzo e non solo per le aziende private, ma anche negli enti pubblici. Il mondo del lavoro si è già trasformato. La pandemia ha solo consentito un’accelerazione che nel giro di un paio d’anni diventerà realtà. Problemi sociali e di malessere psico-fisico, saranno all’ordine del giorno.

  3. Quando lei dice: “la miriade di bar che esiste attualmente (spesso anche troppi, a pochissimi metri uno dall’altro) non potrà più avere clienti a sufficienza per coprire le spese di esercizio e del personale; la grande quantità di persone che andavano al bar – la mattina prima del lavoro a fare colazione, o a fare uno spuntino nel corso della mattinata, o a consumare un pasto rapido ad ora di pranzo – non ci sarà più, o non nella misura precedente: e questo vuol dire il crollo irreversibile di molte attività, e la perdita di grandissime quantità di posti di lavoro sia diretti che indiretti (i lavoratori di vario tipo impegnati in quelle attività: baristi, camerieri, cuochi e personale vario di cucina, ecc.”
    Secondo me lei sta essendo un po’ drammatica. Ci sono maniere di adattarsi. Quando si tratta dei bar secondo me la decentralizzazione aiuterà i bar. Se le persone stanno a casa i bar potranno finalmente andarsene dai centri città dove costa tanto l’affitto e spostarsi in zone residenziali dove l’affitto costa meno.

    A parte quel piccolo passaggio trovo le sue proposizioni molto sensibili durante questo strano momento dove la pandemia non è ne sconfitta ne incontrollabile.

  4. Gian Carlo Costadoni

    I problemi dei centri cittadini – e anche delle nuove aree espansive urbanizzate giunte alla saturazione – resteranno, come sostiene Franco Bianco, tutti interi nella loro drammaticità anche dopo la pandemia: forti costi delle abitazioni, alto costo economico e umano degli spostamenti (traffico e tempi di percorrenza) in centro nei luoghi di lavoro o nelle abitazioni dei fighetti pieni di soldi, aumento dei costi di gestione e controllo di questa area urbanizzata per le amministrazioni locali, competizione con i centri commerciali, difficoltà a trovare alternative e incertezza del futuro. La soluzione non sta nel togliere le zone a traffico limitato che causerebbero enormi problemi agli esercizi commerciali presenti in esse: semmai riportiamo i negozi in città e spostiamo le banche nei centri commerciali. L’importante è non affidare la soluzione ai costruttori alla Trump, che quando si parla loro di questi problemi pensano subito a costruire ponti, gallerie, aeroporti, scuole, ospedali , autostrade. Altrimenti continueranno a danneggiare le maggiori città, non solo in Italia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *